DLIN, DLON.
San Francisco International Airport.
Il volo da Francoforte e’ infilato tra quelli da Shangai, Singapore, Osaka e Seul.
Albini e asiatici si mischiano in un fiume di razze umane con valigia. I tedeschi si riconoscono dalle lentiggini e dalle scarpe orrende. I cinesi viaggiano in grappoli da venti e si parlano addosso come se si stessero lanciando frecce di insulti. Le giapponesi esplodono di colori e viaggiano con solo bagaglio a mano- avendo gia’ addosso l’intero guardaroba. I coreani non li distinguo- fanno parte di quella categoria orientaleggiante indefinita, quasi metaforica.
In un’altra vita, avrei gareggiato con gli omini dei cartelli per guadagnarmi un posto davanti alla balaustra e festeggiare l’arrivo dei suoceri con esclamazioni fuori luogo e frasi bislacche.
In questa vita americana, invece, mi prendo un caffe’ e mi siedo sulle poltrone davanti all’uscita, dove e’ stato piazzato un mega schermo che riprende i passeggeri in arrivo con un anticipo di trenta secondi- grazie a telecamere strategicamente piazzate prima del varco.
L’idea di scoprire in anteprima che foulard indossi mia suocera mi manda in fibrillazione.
I passeggeri mi sembrano comparse di quei film anni ottanta di serie b, quelli in cui nemmeno il protagonista e’ un attore noto.
Distinguo solo le espressioni facciali dei poveretti a cui hanno mandato il bagaglio in Groenlandia ed ora sono condannati allo shopping di mutande.
Il tempo vola.
Ma la tv tiene a terra l’emozioni.
Allaccio la cintura di sicurezza e spengo ogni dispositivo di elettricita’ positiva.
Sara’ l’abitudine, sara’ il cinquantadue pollici, ma non c’e’ piu’ brivido.
La tecnologia ha ucciso la sorpresa.
E all’arrivo, i miei motori sono gia’ spenti.
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